giovedì 6 gennaio 2011

DONNE: NE’ TENERA CARNE DIVINA NE’ SCAGLIATO PESCE INTELLIGENTE.

Leggendo le struggenti pagine di ‘Una donna’, romanzo d’esordio di Sibilla Aleramo, pubblicato per la prima volta nel 1906, si capisce bene perché, un secolo dopo quei primi fermenti, il dibattito sulla ‘questione femminile’ sia ancora acceso come una fiamma che brucia inestinguibile dentro un bosco inaridito.

Scrittrici femministe, post-femministe e anti-femministe duellano sulle pagine dei giornali, mentre le donne si interrogano e lacerano ogni giorno alla ricerca di risposte definitive sulle loro identità, sulla loro bellezza da valorizzare, esporre o celare, sul dilemma dell’essere madri sacrificando parti di se stesse, in un’era non lontana da quando questo sacrificio era assoluto e totalizzante, e comportava una schiavitù fisica, materiale, psicologica, sessuale dallo sposo con cui avevano procreato.
Fantasmi senza diritti per la legge, le nostre nonne e bisnonne (mica lontane antenate senza volto) impazzivano per la mancanza di possibilità, condannate a vita dopo il matrimonio a un legame indissolubile che in cosi’ tanti casi, come la Aleramo ha descritto magnificamente, le conduceva su sentieri disperati: uccidersi, rassegnarsi ad essere oggetto di desiderio altrui a vita, o emanciparsi a costo di perdere i figli, erano sovente le uniche maledette scelte cui si trovavano innanzi.
Un secolo fa le donne incominciarono a domandarsi se non fosse arrivato il momento di spezzare il circolo vizioso d’esempio perdente e perpetuante quella misera condizione, generazione dopo generazione. Molte donne, come Sibilla, si allontanarono ‘volontariamente’ dai figli, scegliendo di abbandonarli nelle mani di mariti accecati di vendetta e giustificati dalla legge pur di insegnare loro il valore della libertà ed essere esempio vivente di dignità.

Gli scrittori maschi alternano commenti ironici a serie riflessioni rispetto alle enormi incongruenze ed incoerenze femminili, mentre gli uomini si barcamenano tra la vecchia perduta identità maschile e quella nuova ancora scarsamente elaborata e interiorizzata.

E’ stato scritto, giustamente, che l’indignazione per una lode a un grazioso decoltè letterario è ridicola da parte di alcune donne; che paragonata ai problemi della condizione femminile in molti paesi, possiamo rallegrarci di vivere in un paese dove questi e non altri ben peggiori sono i problemi.
Anch’io ho sorriso di quell’episodio, ho pensato che la bellezza di una donna, che sia essa casalinga, bancaria, avvocata, operaia, segretaria, cassiera, scrittrice, attrice o cantante, è una cosa talmente sacra a prescindere dal settore o dal mestiere a cui si accompagna (e sullo specifico: il corpo di un’autrice avrà pure a che a fare con la sua opera in qualche modo, giacchè in uno scritto confluisce inevitabilmente l’interezza di una persona, avvenenza o bruttezza percepite incluse ).
Ho pensato anch’io che l’indignarsi di alcune per questo episodio fosse non solo superfluo ma anche autolesionista, come l’azione di un commando di black-block incappucciati e armati di spranghe in testa a un corteo pacifista ( lasciando ad altra analisi se i disturbatori siano davvero fanatici distruttori o non piuttosto furbi infiltrati con la missione di screditare il movimento che fingono di difendere ).

Ma in realtà tutti e tutte dovremmo renderci conto che queste azioni e reazioni, multiple e scomposte, sono inevitabili, perché frutto di ferite fresche, ancora aperte ed infette; che queste riflessioni ( la mia inclusa ), provenienti da disparate parti e partiti, teste e testate, penne, saggi e romanzi, sono destinate a cadere nel nulla di fatto perché assomigliano a tanti areopalanini in panne avvitati su se stessi senza più motore né carburante. In caduta libera verso il vuoto.

E allora, perché scrivo queste parole da me stessa riconosciute come inutili in un’inutile bolgia? Semplicemente perché, come Sibilla grazie alle sue parole scritte sopravviveva, e tramite esse sentiva di mantenere intatto un rapporto con l’amato figlio dal cui abbraccio era stata crudelmente strappata, così io spero, forse mi illudo, ma non cesso di sperare, che le mie contorte riflessioni e tentativi di bozze, aiuteranno i miei figli, maschio e femmine, a comprendere le mie azioni, a perdonare i miei errori, a comprendere le mie lezioni, alleviando le necessarie pene che gli avranno causato. Ella non pretendeva fama, ma ascolto, dal bimbo e dalle persone che le stavano a cuore e che volevano e sapevano ascoltare. Misera, ed anche egoista illusione consolatrice, certo, ma quando si dispera per l’eventualità di non poter crescere accanto al proprio figlio, rimane quest’unico salvagente nel proprio orizzonte.

In fondo noi donne continuiamo a non capirci nulla su quello che dovremmo essere o non essere: da un lato percepiamo atavicamente l’urgenza, il fascino, la fierezza e anche ‘l’ utilita’ pratica di farci e mostrarci belle, dall’altro combattiamo questa nostra sacrosanta natura femminile allarmate della pericolosità di un ritorno all’essere considerate puri oggetti di carne e consumo.
E questo ci porta a una scissione il cui risultato è non riuscire a valorizzare pienamente né la bellezza né l’essenza. Cosa possiamo fare per uscire da questa nostra moderna terra di mezzo incuneata tra due sponde: la tenera carne divina e lo scagliato pesce intelligente?
Credo poco, a breve, perché se le misere devastanti scelte di vita delle nostre nonne ce le siamo in parte lasciate alle spalle grazie a nuove leggi e mutati venti, esse lavorano ancora fortemente nel nostro inconscio collettivo, come un trauma profondo e recente che sarebbe utopistico pensare di riuscire a superare in un battito di decenni.
E gli animi traumatizzati difficilmente agiscono in modo coerente: i fantasmi delle Sibille d’inizio secolo sono gli stessi fantasmi nostri di oggi.
Anche perché la mentalità del compagno che considera la donna suo possesso, e i figli usati come arma di ricatto, è ancora qui tra noi, viva e vegeta, e le conseguenze più estreme di tale mentalità si leggono ogni giorno in cronaca nera, nei verbali di Tribunali, nelle denuncie di Polizia e nelle cartelle cliniche degli Ospedali.
Come potrebbe questa somma di ricordo traumatico e di vissuto attuale favorire il superamento dei nostri incubi collettivi? Non può.
Forse solo un risveglio, una rinascita individuale, che ha tutti i connotati del miracolo più che dell’analisi razionale, e l’incontro fortunato con anime rare, maschili e femminili, capaci di adorarci per la nostra bellezza come s’adorano le statue in un museo e di non spaventarsi di fronte alla nostra caratteristica sensibilità, spesso definita, a torto o a ragione, superiore (e quindi anche soggetta a isterismo), intelligenza e creatività, possono salvarci dalla dissociazione e confusione.

Quindi noi donne, coscienti del nostro trauma, ammettiamo di comportarci in modo scoordinato, anzi, a volte, proprio di non sapere come accidenti comportarci. E vorremmo che per questo i nostri uomini, e gli scrittori che ne sono pubblica voce, ci rispettassero in misura doppia, quadrupla, e contassero fino a dieci prima di ironizzare ad ogni occasione seria o faceta perché noi non ci sappiamo decidere se quella lode galante ci indigna o ci garba.
Lo sappiamo bene noi madri, ammettiamolo, che alle nostre figlie, una volta raggiunta l’età del mestruo e delle forme sinuose, non sapremo cosa insegnare, e manderemo segnali contraddittori, perché quanto contraddittorie ci sentiamo noi ancora! ‘Ragazze, avete il diritto, come i vostri fratelli, di aver una vita sessuale libera’, dichiareremo, rimangiandoci segretamente ogni parola alla loro prima uscita con gli amici. ‘Ragazze, studiate e lavorate, prima di sposarvi e procreare, che altrimenti sarete sempre schiave di qualcuno e di voi stesse’, raccomanderemo, sperando intimamente che un giorno incontreranno un uomo degno di loro con cui conoscere la gioia di un amore rispettoso e di una maternità fonte di sacrificio umano, e non disumano.

Uomini, non godete segretamente, carichi d’un leggero sapore di dolce vendetta, di queste nostre difficoltà e dilemmi, intrinseci alla natura femminile, perché senza di essi, non saremmo donne, ma copioni di modelli maschili in pantalone gessato. Abbiamo sbagliato a volerci dichiarare uguali a voi durante le nostre lotte nei decenni passati, ma quelle lotte erano talmente necessarie che, come tutte le lotte purtroppo, non potevano non portarci a esagerare, a sparare all’amico come al nemico, a scambiare pari opportunità per pari essenza.
Sul campo sono rimaste vittime innocenti: la nostra femminilità e la vostra mascolinità.
Ci vuole tempo per riprendersi dalle guerre e dalle ferite, per reindirizzare gli obbiettivi e risettare gli equilibri, ma questo tempo di transizione si farà più lieve, e forse più breve, se donne e uomini ammetteranno con sincerità i propri errori e le proprie violenze senza rimestare in eterno nel torbido, senza rinfacciarsi quotidianamente i reciprochi errori, senza ironizzare superbamente sulla superiorità degli uni sugli altri. Senza riconoscimento delle altrui difficoltà, storiche e recenti, dei traumi subiti e perpetrati, non ci potrà essere perdono; e senza quello, si sa, null’altro di buono ne verrà.

Io alle figlie potrò solo trasmettere, con l’esempio più che con le parole, il valore di sè stesse, anima, testa e corpo, sentendomi regina dopo essermi sentita schiava, e potendomi poi sentire anche schiava, ma solo dopo essermi sentita regina. Che schiave felici e consapevoli dobbiamo imparare a diventarlo tutte, i discorsi sulla libertà assolutà sono futili e puerili, giacchè tutti siamo necessariamente schiavi di qualcosa nella nostra vita, e le donne che non accettano quest’idea combattono contro i mulini a vento. Come sarebbero altrimenti capaci di donare ai figli il proprio corpo, il proprio sonno, il proprio seno, i propri nervi, il proprio tempo, la propria infinita preoccupazione che inellutabile s’accompagna all’infinita estasi? Non potrebbero, e infatti le mamme moderne che non ce la fanno a gestire il rigore militare necessario a crescere dei bambini, sono figlie di questo mito della libertà cieca e sconfinata.
E come farebbero le donne a riconoscere tra tanti pretendenti che incontreranno, l’uomo valoroso a cui affidare sè stesse e i figli che concepiranno? Non potrebbero, perché dopo lavaggi del cervello materno-femministi sul demoniaco significato delle favole classiche in cui le principesse vissero felici e contente al castello, tirerebbero innanzi senza fermarsi, marciando orgogliose della propria mascolina attitudine all’indipendenza ad oltranza, come hooligan ubriachi che spaccano tutto e tutti, anche le teste dei tifosi della propria squadra. Affidare se stesse a un uomo giusto e probo non è un’eresia contro natura, non lo è mai stata e non lo sarà mai. Grazie alle Sibille disperate e coraggiose del passato possiamo oggi operare le nostre scelte un po’ più agilmente (sottolineo un po’), fino a raggiungere forse un giorno quell’obbiettivo ultimo e divino. Ma senza più rimuovere, ostinate come mule nate sterili, la nostra natura, il nostro destino, la nostra missione, e senza disseminare vittime sul nostro campo in nome d’un oltranzismo ignorante, datato e controproducente.
Solo agendo nel proprio piccolo giardino c’è speranza che altri fiori, uomini, figli e figlie, sboccino al suo interno a nuova fioritura, nel perdono e nell’amore.




“Per quanti giorni ho lottato conservando l’illusione di ottenere mio figlio?….La mia maternità s’era dunque chiusa veramente con quell’ultimo bacio?…Fu da allora che ripresi risolutamente a vivere; dopo aver sentito di nuovo gli altri vivere e soffrire.” (S. Aleramo)
Grazie a tutte le donne che hanno compiuto sacrifici estremi, per loro stesse, per la propria famiglia e per l’umanità futura, e la cui vita abbiamo l’onere e l’onore di onorare e celebrare imparando dai loro dubbi, errori e conquiste .

“In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto, splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta”. (S. Aleramo)
Quale magnifica immagine d’una rinascita individuale senza cui qualsiasi ideale, conquista, battaglia, dibattito resteranno sempre vani, violenti, parziali e inconcludenti.

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